Battaglia di Tagliacozzo


























Battaglia di Tagliacozzo
parte battaglie tra Guelfi e Ghibellini

Battaglia di Tagliacozzo (1268).jpg
Scena della Battaglia di Tagliacozzo
Data 23 agosto 1268
Luogo
Piani Palentini (AQ)
Esito Vittoria angioina
Schieramenti




Arms of Swabia.svg Ghibellini

Arms of the Kings of France (France Ancien).svg Guelfi angioini
Comandanti




Corradino
Federico I di Baden-Baden
Galvano Lancia
Enrico Lancia
conti Aldobrandeschi di Santa Fiora

Carlo I d'Angiò
Alardo di Valéry
Guglielmo Stendardo
Henry de Cousances
Effettivi



9.000 uomini 6.000 uomini

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La battaglia di Tagliacozzo, fu combattuta nei piani Palentini nei pressi di Tagliacozzo il 23 agosto 1268 tra i ghibellini sostenitori di Corradino di Svevia e le truppe angioine di Carlo I d'Angiò, di parte guelfa.


La battaglia di Tagliacozzo rappresenta l'ultimo atto della potenza sveva in Italia. La fine di Corradino segna infatti la caduta definitiva degli Hohenstaufen dal trono imperiale e da quello di Sicilia, aprendo, nel regno siciliano, il nuovo capitolo della dominazione angioina.




Indice






  • 1 Svolgimento


  • 2 Influenza culturale


  • 3 Note


  • 4 Bibliografia


  • 5 Voci correlate


  • 6 Altri progetti





Svolgimento |


Carlo I d'Angiò, fratello di Luigi IX di Francia e primo conte d'Angiò, era stato investito del Regno di Sicilia da papa Clemente IV, mentre Corradino era stato chiamato dai ghibellini a rivendicare il trono di Sicilia dopo la morte del padre Corrado di Svevia, a sua volta figlio di Federico II di Svevia e pronipote di Federico Barbarossa, e la successiva (1266) sconfitta e morte a Benevento dello zio Manfredi, che peraltro, in qualche modo gli aveva usurpato il regno.


Corradino si dirige verso la fedele Lucera che, dopo aver scatenato la ribellione nel regno il 2 febbraio 1268[1], dal 20 maggio 1268[2] era sotto assedio da parte di Carlo I, il quale, per volere della Santa Sede, aveva organizzato una crociata per debellare l'ultima roccaforte islamica del meridione. Lasciato l'assedio, Carlo andò incontro a Corradino e la battaglia si svolse presso i Piani Palentini, tra Scurcola Marsicana ed Albe; prese comunque il nome dalla località di Tagliacozzo, che era il centro abitato più importante dell'omonima contea, situato nei pressi del luogo dello scontro[3]. Queste le forze in campo: circa 9000 imperiali per Corradino; circa 6000 soldati per Carlo d'Angiò.


L'esercito di Corradino, costituito da soldati tedeschi, pisani, romani, spagnoli e arabi, era suddiviso in tre armate: la 1ª agli ordini di Federico I di Baden-Baden e dello stesso Corradino, la 2ª guidata da Galvano de Lancia e la 3ª da Enrico de Lancia. Le truppe angioine erano comandate da Carlo d'Angiò, dal consigliere Erardo (o Alardo) di Valéry e da Guglielmo Stendardo.


La battaglia campale ebbe materialmente luogo presso un ponte in muratura sito sul fiume Imele (tratto abruzzese nei pressi del fiume Salto) o, secondo altri storici, nelle vicinanze del ruscello Riale presso Castrum Pontis. I soldati guidati dallo svevo, numericamente superiori, accerchiarono dapprima le truppe angioine, ma al momento dell'attacco commisero l'errore di non valutare adeguatamente l'entità e le posizioni di tutte le forze nemiche.


Corradino fu sconfitto dopo un'apparente vittoria iniziale a causa di uno stratagemma ideato da Alardo di Valéry, che prese spunto a sua volta da un analogo espediente usato dai saraceni nelle crociate: il nobile Henry de Cousances, aiutante di campo del re, indossò le vesti di Carlo e si lanciò in battaglia con tutta l'avanguardia angioina preceduta dalle insegne reali. Gli uomini di Corradino si gettarono in massa contro questa schiera, sbaragliandola. Caduto il Cousances, i ghibellini ebbero l'illusione di aver ucciso l'odiato francese e di avere in pugno la vittoria. Ruppero così le loro formazioni, lasciandosi andare a grandi scene di giubilo, lanciandosi disordinatamente all'inseguimento dei franco-angioini in apparente rotta, e dedicandosi altresì al saccheggio del campo nemico. Questo diede a Carlo d'Angiò la possibilità di sferrare un nuovo attacco a sorpresa, grazie a 800 cavalieri tenuti in riserva, che egli non aveva impiegato nella prima fase della battaglia e tenuto dietro un avvallamento del terreno.


Lo schieramento ghibellino, preso di sorpresa ed alle spalle, non resse alla carica della cavalleria angioina, fu travolto e si disperse. Per le truppe dello svevo fu una disfatta che assunse in breve le proporzioni di un autentico massacro[4]. Corradino si diede allora alla fuga, dirigendosi verso Roma. La città che poco tempo prima lo aveva trionfalmente accolto, si dimostrò adesso ostile allo sconfitto.


D'altronde, l'ira di Carlo verso i romani, ritenuti traditori per l'appoggio dato in precedenza allo Staufen, era stata terribile, come atrocemente sperimentarono i cittadini romani fatti prigionieri a Scurcola. Essi, infatti, furono barbaramente massacrati con inumani supplizi. Forse la bellissima statua di Arnolfo di Cambio, che raffigura Carlo d'Angiò in trono con un'espressione torva, dovette avere anche la funzione di monito al popolo romano sul prezzo dell'infedeltà. Tutti questi eventi precedenti certo non favorirono in quel momento la solidarietà dei romani verso il fuggiasco Corradino. Il giovane principe ed i suoi decisero che sarebbe stato più prudente lasciare Roma per dirigersi verso lidi sicuri. Raggiunta con i suoi compagni Torre Astura, località del litorale laziale nei pressi di Nettuno, Corradino tentò di prendere il mare, probabilmente diretto verso la fedelissima Pisa.


Fu invece tradito da Giovanni Frangipane, signore di quei luoghi, che lo fece consegnare a Carlo d'Angiò. Processato sommariamente e condannato a morte, fu decapitato a Campo Moricino, l'attuale piazza del Mercato di Napoli, il 29 ottobre 1268; Federico I di Baden-Baden condivise lo stesso destino. La vittoria franco-angioina segnò il destino della saracena Lucera che fu presa per fame il 27 agosto 1269 e della penisola italiana, strappata di fatto agli Svevi dagli Angioini, il cui dominio doveva peraltro subire un duro colpo nel 1282 con la rivolta dei Vespri Siciliani.



Influenza culturale |


La battaglia è citata da Dante Alighieri nell'Inferno (XXVIII, 17-18) e l'accento è posto sulla vittoria per il consiglio di «Alardo sanz'arme»[5], che è indice dell'atteggiamento anti-angioino del poeta, peraltro manifestato anche altrove e giustificato dal fatto che il poeta, nella sua vita, aveva avuto uno dei suoi maggiori avversari in Carlo di Valois, parente di Carlo I d'Angiò.



Note |




  1. ^ Annales Cavenses, in MGH, Scriptores (in Folio) (SS), III, p. 194.


  2. ^ Giuseppe Del Giudice, Codice diplomatico del Regno di Carlo I d'Angiò, vol. 2, 1869, p. 152.


  3. ^ La distanza tra Tagliacozzo ed il luogo della battaglia è di circa 12 chilometri.


  4. ^ La vicenda è descritta, con dovizia di citazioni e particolari, da Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, Roma, 1887, vol. II - pagg. 228 e segg.; lo storico viterbese è particolarmente attento alla descrizione degli eventi di quegli anni, in cui Viterbo fu sede papale, e fa spesso riferimento a fonti manoscritte del tempo.


  5. ^ È palese il riferimento ad Erard de Valéry che, con il suo stratagemma, ebbe un peso determinante nella vittoria angioina.



Bibliografia |



  • Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1887.


  • Dizionario Biografico degli Italiani, Peter Herde: Carlo I d'Angiò, re di Sicilia Treccani



Voci correlate |


  • Lapidi della Divina Commedia di Siena


Altri progetti |



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